COSTRUIRE LA CIVILTÁ DELL’AMORE
Festa dei Santi Arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele
Cattedrale, 29 settembre 2009
Cari Padri rappresentanti dell’ArciDiocesi Ortodossa in Italia, gentili Autorità, figlioli tutti amati nel Signore, siamo convenuti quest’oggi nella nostra splendida cattedrale per celebrare la liturgia di lode al Signore nella festa dei tre Arcangeli: Gabriele, Raffaele e Michele. Per noi è una solennità, in quanto San Michele è il Patrono della nostra Diocesi e della nostra città. Colgo l’occasione per porgere gli auguri a tutti coloro che portano il nome del nostro patrono e, in modo particolare, al sig. Sindaco, dott. Michele Campisi.
1. Fra Genesi e Apocalisse
La Parola del Signore ci stimola, ci provoca e ci consola, come sempre. Abbiamo ascoltato nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, il racconto di questa grande battaglia che si svolge in cielo fra il drago, cioè l’antico serpente, il satana accusatore e la schiera degli angeli guidata da Michele. Michele si presenta così come l’ultimo angelo della Bibbia, ma alcune immagini bibliche ci fanno pensare che Michele sia anche il primo angelo della storia biblica. Infatti, nel cap. 3 di Genesi, dopo la caduta dei progenitori, dopo il peccato originale, i Serafini si schierano a protezione del giardino di Dio, dell’Eden, e, con i Serafini, compare anche una spada fiammeggiante, non a difendere Dio, perché Dio non ha bisogno di essere difeso, ma a segnare il limite fra la creatura e il Creatore, fra il finito e l’infinito. Questa spada fiammeggiante può benissimo richiamare il nostro patrono San Michele. Così, dall’inizio alla fine della Bibbia, San Michele è lì, con la sua spada, a difendere gli uomini dalla loro perenne tentazione di volersi sostituire a Dio: Quis ut Deus, chi come Dio? A questo ci richiama l’Arcangelo Michele. Tutta la storia biblica, dunque, si dispiega in questo tentativo dell’uomo di sostituirsi a Dio o di fare a meno di Dio, mentre dall’altra parte c’è lo sforzo di Dio di rendersi presente all’uomo, tanto da farsi figlio dell’uomo. Noi siamo tesi in questo arco fra Genesi e Apocalisse, tutta la storia umana è davvero accompagnata da un Dio che non dimentica, che si ricorda delle sue creature e che capovolge la logica delle cose. L’uomo non riesce ad essere come Dio, perché è finitudine, è fragile finitudine dell’essere, allora Dio si fa uomo. È più facile per Dio abbassarsi fino a farsi creatura fra le creature, pur rimanendo Dio, che non per l’uomo ergersi a divinità.
2. Trafiggere il cuore con la spada della Parola
Purtroppo, la storia umana ci ha insegnato che quell’ antica tentazione è sempre presente nel cuore dell’uomo e tutte le storture, le guerre, le ingiustizie nel mondo, sono frutto di questa autoidolatria dell’uomo, che si erge a Dio rispetto ai suoi fratelli, dell’uomo che si autoespone, elevando a divinità la sua intelligenza, o i suoi talenti, o le sue subdole strategie. E così sostituisce a Dio la voglia del potere, dell’avere e dell’apparire. Dio, ci insegna invece, la logica del servire, dell’essere, dell’esserci, senza volere apparire.
Primo e ultimo angelo della Bibbia, Michele è inizio e fine di una storia che vede l’uomo in continuo combattimento, dal giardino di Dio alla terra. L’uomo esce dal giardino di Dio e diventa ramingo sulla terra, quasi smarrito, alla grazia preferisce il peccato, il peccato dell’uomo che è sempre contro il primo comandamento: «Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altro Dio di fronte a me». Il peccato dell’uomo è non accettare la propria creaturalità e il proprio posto nel mondo. Il card. Newmann diceva: «In un certo senso sono più importante io al mio posto, che un angelo al suo». Ma l’uomo è avido, è goloso, vuole sempre di più e, così facendo, smarrisce il senso del suo essere e del suo esistere. La spada fiammeggiante protegge l’uomo dalla tentazione di autoesaltarsi e chiude il giardino dell’Eden.
Ma allora il cielo di Dio è davvero chiuso? È impossibile per l’uomo affacciarsi alla finestra di Dio? No, il cielo di Dio non è chiuso perché il cielo è venuto in terra, Dio si è fatto figlio dell’uomo. Ma questo cielo richiede una lotta, adesso il cielo non è più una semplice grazia, non è più un semplice dono di Dio, è anche una conquista per la quale occorre lottare. E l’uomo la deve condurre questa lotta innanzitutto sul terreno della propria esistenza, all’interno del proprio cuore. Sì, perché il drago, il serpente antico, il tentatore è dentro il cuore dell’uomo. Come ebbe a dire Gesù, è dal cuore dell’uomo che escono le ingiustizie, gli omicidi, gli adulteri, le calunnie e ogni gemito di male. Non possiamo solo puntare l’indice sugli altri, non possiamo sempre ergerci a giudici degli altri! Dobbiamo guardare il nostro cuore. Michele ci invita con la sua spada a saper trafiggere il nostro cuore con la Parola del Signore, ci inchioda dinanzi alle nostre responsabilità, ci inchioda nell’umile finitudine dell’essere, ci inchioda dinanzi alla responsabilità che abbiamo di non travasare il nostro peccato interiore nel mondo.
3. La perdita del senso del peccato
È così, il peccato di ciascuno di noi crea nel mondo un ambiente di peccato. Non possiamo alzare il dito e condannare la mafia, se la mafia la portiamo nel cuore, non possiamo alzare il dito e additare o condannare le ingiustizie, se l’ingiustizia la portiamo nel cuore, non possiamo ergerci a uomini onesti, se siamo disonesti nel nostro cuore, nel pensare e nell’agire. Siamo noi che abbiamo inquinato il mondo con il nostro peccato, creando strutture di peccato, a livello politico, a livello familiare, a livello sociale, a livello civile e anche a livello religioso. Troppo spesso, per il nostro interiore peccato, abbiamo reso impuro ciò che è puro, abbiamo inquinato anche il sacro. Perciò, figlioli carissimi, dobbiamo tornare a combattere le ingiustizie, innanzi tutto dentro di noi e poi sono attorno a noi. Non possiamo vivere nell’indifferenza. Diceva Pio XII che la vittoria del peccato è la perdita del senso del peccato. Quando smarriamo ogni motivo per lottare e cadiamo nell’indifferenza, abbiamo fatto vincere il drago in noi e non il nostro Patrono Michele. Quando siamo indifferenti dinanzi al vilipendio della verità, dinanzi ai poveri che aumentano sempre di numero nella nostra città, dinanzi a padri di famiglia, a giovani che perdono il posto di lavoro per tanti giochi politici, a giovani costretti ad emigrare per trovare lavoro, svuotando così la nostra città, vuol dire che noi abbiamo fatto vincere il drago in noi. È inutile che poi veniamo a dare l’offerta a S. Michele, ad accendere le candele o a fare le nostre devozioni, siamo schiavi del diavolo, non siamo figli di Dio, non combattiamo a fianco di Michele.
4. Con le armi della luce
Ma un altro grave errore è anche la rassegnazione che, purtroppo, come una palude, investe e ingoia tutti i nisseni. La rassegnazione: è stato sempre così, si è fatto sempre così. No, figlioli carissimi, non possiamo rassegnarci, non possiamo lasciarci ingoiare in un ineluttabile destino. Se siamo devoti a San Michele dobbiamo prendere le armi della luce: «Il vostro nemico, il diavolo – scrive S. Pietro – come un leone ruggente, va in giro cercando chi divorare, resistetegli saldi nella fede». Siamo chiamati davvero a liberare il cielo della nostra anima dal drago antico, siamo chiamati davvero a rendere paradiso le nostre comunità cristiane, a spazzare le nubi, i temporali, i fulmini del male dalla nostra città, perché il cielo possa tornare a sorriderci.
Ma come fare questa battaglia, come intraprendere, ciascuno con la sua responsabilità e tutti insieme, questa grande lotta? Ecco la via che ci indicano i tre Arcangeli che noi celebriamo oggi: Gabriele, l’arcangelo dei grandi annunci, l’arcangelo della Parola di Dio, la forza di Dio è la sua parola. Dobbiamo tornare ad ascoltare la Parola di Dio, dobbiamo tornare a fare echeggiare nel nostro cuore, nelle nostre relazioni, nelle nostre comunità cristiane e civili, la Parola di Dio. Raffaele, la medicina di Dio, che è il suo stesso nome: Deus caritas est, come ci ha ricordato il Papa Benedetto nella sua prima enciclica, è l’amore la medicina di Dio. In un mondo sempre più pieno di odio, rivalità, invidie, gelosie, occorre davvero ritornare a dispensare il balsamo di Dio che è l’amore, cioè lo Spirito Santo, come ci ricordano i nostri fratelli ortodossi: c’è bisogno di Spirito Santo, di rientrare nel mistero della nostra creaturalità amata e baciata da Dio, tanto che, proprio in quanto creature, noi siamo immagine di Dio. Dobbiamo tornare ad essere amore, a seminare amore, perché l’amore che seminiamo dilagherà, come la foresta che non fa rumore, ma intanto cresce. E infine Michele, che ci ricorda: Quis ut Deus, chi come Dio? Perché possiamo tornare a riappropriarci della nostra umile creaturalità.
E mentre Gabriele, come parola, ci ricorda che la Parola di Dio si fa dialogo, si fa colloquio, ecco anche la gioia del Vescovo e della nostra comunità, di avere con noi i nostri fratelli dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia per un dialogo attorno alla Parola, in forza della Parola, illuminati dalla stessa Parola. E voglio salutare anche il Sig. Questore e tutta la Polizia di Stato, e anche il Coro della Polizia, che si battono per la giustizia. Tante sono ancora le ingiustizie intorno a noi a tutti i livelli. Quante donne, quanti bambini, quanti uomini innocenti muoiono ogni giorno, per esempio, per le ingiustizie dei paesi dell’Occidente, i paesi dell’opulenza che ancora vogliono sfruttare i paesi poveri! Finché ci sarà questo squilibrio, questa ingiustizia, questa non ecologia della pace nel mondo, non potrà mai trionfare la giustizia. Siamo davvero chiamati, come Michele, a ricordarci che solo Dio è Dio e noi siamo relegati nella finitudine del relativo, siamo nel tempo penultimo, non nel tempo ultimo, siamo nella storia delle cose penultime. E penultima è anche la politica, che non può ergersi a divinità, penultimo è anche il denaro, che è uno strumento, non un fine. Questo ci deve ricordare Michele, Quis ut Deus?
5. Servire l’uomo
Figlioli carissimi, riprendiamo la spada della parola di Dio, riprendiamo l’armatura dell’amore, perché il male è stato vinto con il sangue dell’Agnello e noi dobbiamo riuscire a creare la giustizia anche a costo di pagare con il sangue del nostro amore, per creare ed edificare una civiltà dell’amore, una civiltà dell’amore che già ha i suoi segni nella nostra città. Proprio in occasione della festa di S. Michele, l’altra sera abbiamo consegnato ad una famiglia indigente con cinque bambini, una casa che la parrocchia Cattedrale aveva voluto mettere a disposizione come dono al Vescovo per la Visita Pastorale. Abbiamo lavorato nello spirito della carità, della solidarietà in tutta la nostra Diocesi e, con le offerte nostre, con le offerte dei fedeli, abbiamo fatto quello che le Istituzioni non hanno voluto fare: siamo riusciti a far rientrare alcune famiglie in via Eber, in via Gori e ancora, con i soldi che rimangono, e sperando che intanto le Istituzioni intervengano, possiamo mettere in sicurezza anche la via Gori. Ecco, la chiesa non teme di sostituirsi alle istituzioni, perché per noi l’uomo viene prima di ogni altra cosa. La dignità dell’uomo, il servire l’uomo, anche nel nascondimento, viene prima di ogni riconoscimento.
Dunque, figlioli carissimi, gentili Autorità, adoperiamoci perché si costruisca una città capace di guardare al futuro, di superare ogni sorta di sterile antagonismo, di accettare il conflitto creativo come forza credente e propositiva di un dialogo per la costruzione della civiltà dell’amore. E voglio augurarmi davvero che si possa provvedere a inventare lavoro, che si possa provvedere a ripopolare di giovani, nella serenità, nella laboriosità, nella giustizia e nell’onestà, questa nostra città che tanto ha fatto, che tanto merita, che tanto deve fare, con l’aiuto del nostro patrono, San Michele Arcangelo. E così sia!