IL COMPIMENTO NELL’OGGI
S. Messa Crismale,
Caltanissetta – Cattedrale, 20 marzo 2008
1. Custodi della persona di Gesù
Eccellenza carissima e mio padre Vescovo Mons. Rizzo, amici e figli nel presbiterato e nel diaconato, amatissimi seminaristi, carissimi religiosi e religiose, figlioli tutti amati nel Signore, è un giorno di gioia questo per la Chiesa universale, è un giorno di gioia per noi che qui siamo radunati insieme nella più grande delle celebrazioni liturgiche, momento nel quale l’intera comunità ecclesiale diocesana si ritrova insieme nella chiesa Cattedrale in unità col Vescovo. Oggi è il giorno del nostro sacerdozio. Quell’oggi annunciato da Gesù a Nazareth, nel quale la Scrittura ha trovato il suo pleroma, il suo compimento; quell’oggi accade anche per noi in questa giornata. Oggi anche noi siamo nati come sacerdoti, perché oggi Cristo Gesù, istituendo l’Eucaristia nel cenacolo, ha istituito anche il sacerdozio cattolico. Per questo noi presbiteri rinnoveremo le promesse della nostra ordinazione, perché possiamo ancora una volta celebrare quell’oggi in quest’oggi, perché quel «fate questo in memoria di me» ci possa trasformare, di giorno in giorno, in uomini del ricordo sacramentale, custodi della memoria. E non la memoria di qualcosa, perché noi sacerdoti, custodiamo non il ricordo della morte e della risurrezione di Gesù ma Lui stesso, della sua persona, il suo essere Figlio del Padre donato per la salvezza del mondo: «Fate questo in memoria di me». Ed oggi noi rinnoviamo l’impegno, ricevuto per grazia, di custodire la memoria in noi e di rendere presente Lui, ogni giorno, nella proclamazione della Parola e nella celebrazione dell’Eucaristia perché fra sacerdozio ed Eucaristia, c’è un connubio strettissimo, l’uno non può prescindere dall’altra e viceversa.
2. Una consacrazione per la missione
Siamo chiamati allora a riflettere oggi insieme sul senso del nostro sacerdozio e chiediamo l’aiuto di tutto il popolo di Dio, perché possiamo essere sempre sacerdoti secondo il cuore di Cristo. Abbiamo ascoltato il testo di Isaia che parla del Servo del Signore, il quale è stato unto con l’unzione, consacrato, mandato per annunciare ai poveri la lieta notizia. Ma l’evangelista Luca non ha riportato così com’era il testo di Isaia, ha fatto una leggera modifica. Nel testo di Luca, Gesù - o il Servo del testo che Gesù legge – dice: «Ungendomi, mi ha consacrato per evangelizzare i poveri». Il che vuol dire che fra la consacrazione e l’evangelizzazione dei poveri non c’è alcuno iato, non c’è dopo la consacrazione un mandato, una missione, ma la consacrazione in sé è già per evangelizzare i poveri. Come a dire, che il fine della consacrazione è l’evangelizzazione dei poveri, annunciare soprattutto agli ultimi, ai diseredati, ai disagiati, ai bisognosi, a quelli che hanno smarrito il senso della vita, a quelli che sono ormai come accartocciati nella tristezza della loro monotona esistenza, la gioia di Dio e la lieta novella.
3. Vasi traboccanti di gioia
Ed io mi chiedo e lo chiedo ai miei fratelli nel sacerdozio: ma noi siamo felici? Siamo certamente tutti un po’ stanchi, perché non ci risparmiamo per la Chiesa, per servire voi, figlioli carissimi; siamo stanchi perché tante volte non abbiamo tempo neanche per noi stessi, per riposare, forse neanche per studiare e, a volte, noi stessi diventiamo ladri del tempo, sottraendo a Dio il tempo che gli dobbiamo nella preghiera. Però è certo che tutti i sacerdoti, con grande zelo e fatica si spendono per voi. Registriamo oggi nel nostro presbiterio anche alcune assenze, dovute proprio a malattie e alla salute un po’ traballante. Ma anche tanti fra i presenti non godiamo certo di una salute eccezionale. Da una parte, possiamo dire con soddisfazione, davvero, che ci stiamo consumando per voi, per la causa del Regno, per Lui, Cristo Signore. Ma, d’altra parte mi chiedo se alla fatica, allo zelo generoso e infaticabile, si accompagna la felicità. Se dobbiamo evangelizzare, annunciare la notizia della gioia, se dobbiamo annunciare la felicità di Dio a quelli che sono privi di senso, privi dell’essenziale, noi dovremmo essere dei vasi traboccanti di gioia, dovremmo essere irradiatori, attraverso la nostra persona, della felicità di Dio. Se, a volte, non ci vedete così radiosamente felici, allora dovete ancor più pregare per noi. Mentre noi, anche con le promesse che rinnoveremo quest’oggi, ci impegniamo con la grazia di Dio a lasciarci trasfigurare da Lui, a rinnovare ancora una volta, nel nostro cuore, quella consacrazione che diventa una trasfusione di Spirito Santo e ci rende abili, non per nostra capacità ma per sola grazia, di essere un “altro Cristo” nella Chiesa, nella storia, perché nessuno più del sacerdote può dire di sé le parole di Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me». Nessuno più del sacerdote lo può dire, soprattutto quando il sacerdote agisce in persona Christi. Noi vogliamo davvero essere nella felicità, perché Cristo Gesù ci ha accordato una grande fiducia nonostante i nostri limiti. Nonostante le nostre fragilità, le nostre debolezze, Dio si fida di noi, si è fidato di noi tanti anni fa, continua a fidarsi di noi anche quest’oggi. Per cui, davvero, Cristo può dire di noi - e noi lo possiamo dire solo in Lui e con Lui - che oggi si è adempiuta, anche per me, anche per noi, questa Scrittura.
4. Presi per sé
Vorrei consegnare brevemente a me, a voi, ai miei carissimi sacerdoti, i quattro verbi che preparano la consacrazione eucaristica: Gesù – e noi ripetiamo questi stessi verbi – prese il pane o prese il calice, rese grazie, lo diede e disse. Quattro verbi: prendere, benedire, donare, proclamare. Potremmo dire che in questi quattro verbi c’è la storia di ciascuno di noi, unto con l’unzione battesimale, ma c’è anche la vicenda di ogni sacerdote che ha ricevuto l’unzione nelle mani: l’elezione, la benedizione, la donazione, la proclamazione. L’elezione: «Prese il pane». È lo stesso verbo che la LXX già usa in Genesi 2, quando Dio «prese» Adamo e lo pose nel giardino della vita. Così anche noi, siamo stati presi e posti nel giardino della Chiesa. Questa presa di Dio è una elezione da parte sua: ci ha presi di fra gli uomini, ci ha presi tra tanti non perché ha visto qualcosa di particolare in noi, ma perché da sempre Lui ci ha pensati per questo. Anzi, ciascuno di noi, a volte, ha potuto dire, anche il giorno della sua ordinazione: perché proprio io, perché proprio me, quando tanti altri sono più intelligenti, più santi, più buoni? Sì, forse perché Lui vuole ancora di più risplendere in me, perché io non ne sono capace, per questo Dio mi ha preso. È lo stesso verbo che viene usato da Giuseppe, quando «prese» Maria, ed è lo stesso verbo usato dal discepolo amato che sotto la croce «prese» con sé la Madre. È un verbo di elezione, di scelta; ma in questa elezione c’è tutta la sponsalità, la nuzialità. Noi siamo stati scelti perché Dio è innamorato folle di noi e ci ha scelti, ci ha presi a sé e ci ha presi per sé, non ci ha presi per voi ma per sé. Ed è perché siamo suoi che noi possiamo donarci anche a voi.
5. Culla di Dio
A questa elezione segue la benedizione. La vita del sacerdote è una vita sponsalmente vocazionale, ma è anche una vita gratuitamente benedetta. Siamo chiamati a benedire, a rendere grazie perché Dio si è messo nelle nostre mani, ha consacrato le nostre mani e, dunque, le nostre mani, per quanto impure, per quanto, a volte, callose, piene dei nostri difetti, diventano la culla di Dio e con queste mani noi benediciamo, consacriamo, accarezziamo, abbracciamo. E ogni volta, in memoria di Lui, rendiamo Lui presente nel ricordo vivo che noi siamo di Cristo Gesù. Come possiamo, allora, non vivere un’esistenza nel rendimento di grazie! E le parole che noi pronunciamo per consacrare il pane e il vino non sono solo una formula eucaristica, devono diventare per noi sacerdoti una formula di vita: prendete e mangiate, è il mio corpo, il mio sangue, dato per voi.
6. Dono totale sempre e comunque
E poi la donazione: noi non ci apparteniamo più, siamo di Dio e, in quanto di Dio, dobbiamo donare tutto di noi. Sì, a volte, sperimentiamo davvero di essere un quasi niente, soprattutto quando, anche a motivo della salute, ci possiamo scoraggiare, o quando vediamo lo scarto fra i nostri sforzi e i risultati raggiunti, oppure quando, alla fine di una settimana, dobbiamo tirare le somme e ci accorgiamo sempre di aver fatto le stesse cose, aver celebrato gli stessi riti, aver pronunciato le stesse parole ed essere rimasti noi uguali a prima e voi così com’eravate prima. Questo a volte ci può davvero deprimere ma, nonostante tutto, siamo chiamati a darci, a dare quel quasi niente che noi siamo. Gesù non ha voluto da noi chissà che, sapeva dei nostri limiti, conosceva le nostre stanchezze, leggeva già i nostri occhi tristi, eppure ci ha scelto ed ha voluto che diventassimo vita di benedizione per voi, pane spezzato, sangue versato.
Ecco la donazione di noi che vogliamo rinnovare quest’oggi, nella proclamazione della Parola di Dio, nel coraggio di dire il Vangelo, anche quando questo grida contro noi stessi, anche quando questo Vangelo mette in crisi le nostre lacerazioni o ci inchioda alle nostre responsabilità. Non possiamo tirarci indietro, dobbiamo proclamare la lieta notizia, dobbiamo dire Dio anche quando non ne avremmo voglia, anche quando vorremmo chiudere le chiese e starcene per conto nostro. Dobbiamo ancora una volta dire Dio e voi dovete leggere quel Dio che noi cerchiamo di dire, che cerchiamo di essere, che cerchiamo di donarvi, anche nei nostri fallimenti. Lì Dio ci viene a visitare, lì ancora Dio vuole consegnarsi.
7. Parola efficace
E le nostre parole, per quanto possano essere a volte appesantite dalla debolezza della nostra umanità, sono parole efficaci perché davvero quando diciamo «Io ti assolvo», il peccatore se ne va riconciliato con Dio, con la Chiesa, con se stesso; davvero, quando diciamo: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, …questo è il mio sangue versato per voi», quel pane diventa Corpo di Cristo e quel vino diventa suo Sangue; la nostra è parola efficace, anche se rivestita di debolezza. Allora, miei carissimi figli e amici sacerdoti, non possiamo non essere nella gioia. Oggi è la festa della nostra felicità, Dio ci accorda ancora tanta fiducia, perché ancora una volta mette il Figlio suo nelle nostre mani e nelle nostre labbra. Possiamo davvero, allora, nell’unità delle labbra, del cuore e delle mani, in questa trinitaria corporeità del nostro essere suoi ministri, possiamo ancora e sempre poter dire Dio, poter dare Dio, ringraziando il Signore perché ha accettato di dirsi e di darsi attraverso di noi. Sia lodato Gesù!