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Sacerdoti esperti in Umanità

29-06-2007 00:00

Diocesi di Caltanissetta

omelie,

Sacerdoti esperti in Umanità

SACERDOTI ESPERTI IN UMANITà XXV di Ordinazione presbiterale di Don Giuseppe D’AnnaCalascibetta, Chiesa Madre, 29 giugno 2007  Figlioli carissimi, due

SACERDOTI ESPERTI IN UMANITà

 

XXV di Ordinazione presbiterale di Don Giuseppe D’Anna

Calascibetta, Chiesa Madre, 29 giugno 2007

 

 

Figlioli carissimi, due ricorrenze ci permettono questa sera di stare insieme e di riflettere sulla Parola di Dio che ci è stata consegnata nell’ascolto: la solennità dei santi Pietro e Paolo e il 25° di Ordinazione presbiterale dell’arciprete don Pino D’Anna. Ma dobbiamo giustamente ricordare anche l’anniversario di Ordinazione del vicario parrocchiale, nonché parroco di S. Giuseppe a Cacchiamo, don Calogero Mantione.

 

1. Primo senza alcun merito

 

A Calascibetta c’è una grande venerazione per S. Pietro. Desidero brevemente riflettere insieme a voi sulla sua figura, cominciando proprio col chiedermi chi fosse Pietro, cosa avesse di speciale e quali qualità egli possedesse per poter diventare il “principe” degli apostoli. In verità, leggendo i vangeli mi sono reso sempre più conto che forse, fra gli apostoli, quello che meritava meno questo compito era proprio Pietro.

 

Egli, secondo i vangeli sinottici, è stato il primo insieme ad Andrea e poi a Giacomo e Giovanni ad essere chiamato a seguire Gesù. Secondo il quarto vangelo, invece, i primi apostoli sono stati  proprio Andrea e il discepolo amato. Ed è Andrea che convince Simone ad andare da Gesù. Simone dunque non è il capo degli apostoli perché è il primo ad essere chiamato e nemmeno perché aveva una spiritualità più profonda. No, perché l’unico degli apostoli a seguire Gesù fin sotto la croce è il discepolo amato, lui sì che avrebbe meritato il titolo di “capo” degli apostoli. Inoltre Pietro non era certamente un uomo capace di organizzare la pastorale della Chiesa; infatti nei momenti difficili viene proprio meno e se dinanzi alle difficoltà - ricordiamo il cap. 10 del vangelo di Giovanni - il pastore fugge, è un ladro e un mercenario, non è il pastore delle pecore. Quando vengono ad arrestare Gesù, Pietro invece di organizzarne la difesa si comporta da una parte come uno che ha paura e, dall’altra, come uno che non capisce nulla; è confuso, non sa discernere immediatamente e tutta la sua sicurezza viene meno dinanzi a delle servette nel cortile del sommo sacerdote dove, per tre volte, rinnega Gesù.

 

Pietro, dunque, non ha nemmeno le qualità pastorali per poter essere capo degli apostoli. Possiamo parlare di qualità intellettuali? Certamente no. C’era Matteo che probabilmente era ben più avveduto di Simon Pietro, in quanto era un esattore delle tasse. Non perchè chi ha a che fare con il denaro sia un uomo di cultura, però a quei tempi era già qualcosa saper fare un po’ di conti. Insomma, c’erano tanti altri apostoli, per esempio anche Giacomo, che era parente di Gesù e sarà Vescovo di Gerusalemme, che potevano avere più titoli di Pietro per assumere il ruolo di capo degli apostoli.

 

Ma allora perché Pietro? Perché lui non può vantare alcun merito davanti a Gesù, non ha alcun titolo per svolgere questo ministero, non ha niente che provenga da se stesso. Pensate che perfino nella professione di fede di Pietro - è il testo del vangelo che oggi abbiamo ascoltato – la risposta «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» non è frutto della sua grande fede. E Gesù glielo dice: sei beato, ma non è merito tuo perché è il Padre mio che te lo ha rivelato. Quindi Pietro non ha neanche il merito di essere un uomo di fede. E non è un uomo di fede al punto che, preso dalla presunzione di voler imitare Gesù, chiede di camminare sulle acque e siccome la sua fede è proprio debole, affonda. Gesù lo chiama a seguirlo per pura gratuità, lo investe del compito di capo degli apostoli e dunque di “pietra” sulla quale costruire la Chiesa soltanto per amore, come ben capirà l’apostolo Paolo: «Il Signore mi ha detto: ti basta la mia grazia. È nella tua debolezza che si rivela la mia forza».

 

2. Uomo vero capace di amare

 

Gesù sceglie quello che fra gli apostoli probabilmente era il più debole. Ma nel cuore di Pietro qualcosa di grande e profondo Gesù ha colto, qualcosa che pian piano, con la pedagogia di Gesù e soprattutto con il dono dello Spirito Santo, verrà fuori: Pietro è un uomo vero, ha una grande umanità e su questa umanità vera e non sdolcinata, su questa rozza e grezza roccia di umanità Gesù sa che può contare.

 

Gesù non cerca devoti, cerca credenti; non vuole preti dalla parola facile, vuole uomini che siano maestri di umanità, uomini “esperti in umanità”, come direbbe Paolo VI, capaci perciò di sentire compassione per i fratelli, di mezzo ai quali Lui ci ha scelti; uomini con le loro debolezze, le loro lentezze, le loro fragilità e i loro slanci; uomini con un cuore capace di palpitare e di amare. Gesù ha visto in Pietro un uomo vero e su questa verità di umanità ha costruito la sua Chiesa; ha visto in Pietro un cuore che ama, per questo dopo la risurrezione dirà: «Simone di Giovanni, mi ami tu?».

 

Il Signore vuole che Pietro tiri fuori la sua capacità di amare, non cerca la cultura, non richiede la capacità pastorale ed organizzativa, non elenca titoli e lauree, e non cerca come cosa primaria neanche la fede. Gesù vuole un cuore che ama, perché su un cuore che ama si può sempre scommettere e Gesù ha scommesso su Pietro che sì lo ha tradito e rinnegato ma aveva un cuore grande, un cuore d’uomo capace di sperimentare i suoi limiti, consapevole di non riuscire ad amare come ama Dio.

 

Quando Gesù chiede: «Simone di Giovanni agapas me? (hai per me un amore totale, radicale)», Pietro, conoscendo le sue fragilità e le sue debolezze, risponde: «Kyrie, filò se - ho per te un amore di amicizia, ti voglio bene con grande affetto, ma non riesco a dirti che ti amo come ama Dio». Poi Gesù, per la seconda volta, torna a chiedere: «Simone di Giovanni, agapas me? (voglio questo amore da te)». E Pietro non può e non vuole sbilanciarsi, non sente ancora il suo cuore trasfigurato a tal punto da poter essere veramente un alter Deus anche nel modo di amare. Si sente solo pienamente uomo: «Kyrie, filò se - Signore, ti amo con affetto, con amicizia, ti voglio bene, ma non chiedermi di più». E la terza volta Gesù dimostra che è su questa filia, su questa amicizia che Lui vuole contare. E allora Gesù si converte a Pietro, si abbassa al livello di Pietro, non innalza Pietro fino al livello dell’amore di Dio, ma abbassa l’amore di Dio al livello dell’amore umano. La terza volta infatti Gesù dice: «Simone di Giovanni, fileis me?- mi accontento di questo affetto, di questo amore di amicizia, mi basta la tua capacità umana di amare, su questo io faccio affidamento e a te io affido le mie pecorelle».

 

3. La fragile umanità del sacerdote…

 

È bello, allora, pensare che noi Sacerdoti siamo uomini con le nostre debolezze, con i nostri ritardi anche sul piano della fede, con le nostre vedute a volte limitate, con le nostre presunzioni, con la nostra arroganza e la nostra finitudine. Siamo uomini con un cuore che ama e ha sete d’amore. Siamo uomini… ma è questa umanità che Gesù ci ha chiesto in prestito, perché in questa umanità Lui vuole rivelarsi. Perché la nostra umanità nelle mani di Gesù è come il Tabor sul quale Lui trasfigura il suo volto, è quel Tabor nel quale Lui si rivela agli uomini e alle donne suoi fratelli e sorelle. Per questo noi diveniamo cosa sacra, siamo “consacrati”, sacrificio vivente; non per nostro merito ma per amore di Dio.

 

Allora, pur vedendo in noi questa umanità nella quale dobbiamo sempre più crescere, voi dovete cogliere in noi quell’inevidente e invisibile Dio che ha preso tutto il nostro cuore, che ha preso possesso di noi espropriandoci di noi stessi, al punto che noi diciamo: «Io ti assolvo». Perché non sono più io ma è Cristo Gesù, che mi ha espropriato a tal punto da transunstanziarmi sacramentalmente e ontologicamente in Lui, che dice: «Io ti assolvo» attraverso la mia mano, la mia bocca, il mio sguardo. È Lui che tiene quel suo Corpo tra le mani; le mani sono le mie ma il Corpo è suo e io dico del corpo di Gesù e del corpo mio: «Prendete e mangiate, è il mio corpo spezzato per voi».

 

Ecco la grandezza del sacerdozio: uomo fra gli uomini, radicato nella storia ma proprietà esclusiva di Dio. Ecco perché l’altare del Sacerdote è la croce e solo la croce. Perché lì, sulla croce, il Sacerdote tiene le braccia aperte e spalancate come Gesù per abbracciare il mondo intero. Quando noi volessimo schiodare le mani dall’altare della croce, correremmo il rischio di abbracciare qualcuno e di lasciar fuori tutti gli altri e allora verremmo meno al nostro sacerdozio.

 

Carissimo don Pino, l’augurio che il tuo padre e fratello Vescovo vuole porgerti oggi è che tu possa essere sempre più esperto in umanità, che possa sempre più lasciarti trafiggere il costato per donare al popolo che il Vescovo ti affida nel nome del Signore il sangue dell’amore e l’acqua della sua Parola e della rigenerazione. Che tu possa sempre lasciarti inchiodare all’altare della croce per trasfigurarti in Cristo Gesù, perché non è di te che questo popolo ha bisogno ma solo di Dio che a loro si rivela e si comunica attraverso di te.

 

Miei cari figlioli, pregate per i vostri Sacerdoti, pregate per don Pino come per don Calogero e per gli altri Sacerdoti, perché voi possiate essere per loro una grande scuola di fede e di umanità. Se è vero che ogni Sacerdote è l’immagine del popolo che gli è affidato, è anche vero che ogni comunità parrocchiale è l’immagine del pastore che la guida, la forma, la conduce a Cristo Signore. E così sia!