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Tamar: il futuro per vie tortuose

21-12-2011 23:00

Diocesi di Caltanissetta

omelie,

Tamar: il futuro per vie tortuose

Tamar: il futuro per vie tortuose Celebrazione con i volontari della CaritasCaltanissetta – Cappella Maggiore del seminario Vescovile,22 dicembre 2011

Tamar: il futuro per vie tortuose

 

Celebrazione con i volontari della Caritas

Caltanissetta – Cappella Maggiore del seminario Vescovile,

22 dicembre 2011

 

1.  Una nascita “irregolare”

 

Nella genealogia di Gesù, presentataci dal vangelo di Matteo, dopo che l’evangelista ha citato Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuda, notiamo uno slittamento, perché si interrompe la linea al maschile e si parla di una donna. Questa donna è Tamar, una donna non ebrea. Tamar sposa Er, il primogenito di Giuda, ma quello, come già aveva fatto suo padre, si comporta male agli occhi del Signore, cioè non osserva la sua giustizia, non vive secondo la sua legge e dunque, resta fuori dal rispetto verso il prossimo, perché osservare la giustizia di Dio trova attuazione nel nostro modo di relazionarci con gli altri. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è la prova che tu ami il Signore con tutto il cuore. Lo dice infatti la Scrittura: «Se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?». Giuda si è comportato male, suo figlio Er si è comportato male. Dio lo punisce facendolo morire. Tamar resta perciò vedova. In Israele vigeva la cosiddetta legge del levirato: poiché non si era ancora sviluppata l'idea della vita eterna, si faceva consistere il prolungamento della vita oltre il tempo della vita stessa nel prolungamento di sé nel generato dal proprio sangue. Quindi i figli sono la garanzia di eternità, perché prolungano la memoria dei padri nella storia ed anche per questo si metteva al figlio il nome del padre preceduto dall’espressione “figlio di”: se uno si chiamava per esempio Giuseppe, il figlio si chiama “figlio di Giuseppe”, bar Joseph, o ben Joseph.

 

Per dare un figlio a Er, primogenito di Giuda che Dio aveva fatto morire, c'era l'obbligo che uno dei fratelli o il parente più prossimo in mancanza dei fratelli, dovesse sposare la vedova, ma non poteva poi dare al figlio il suo nome, doveva dargli il nome del fratello defunto. Perciò, Giuda, figlio di Giacobbe, ordina al secondogenito Onan di unirsi con la cognata rimasta vedova, per generare con lei un figlio per il fratello defunto. Ma Onan fa ciò che è male agli occhi del Signore, perché approfitta della situazione per godere di un'altra donna e bella per giunta, ma non vuole dare un figlio al fratello defunto e dunque «disperde il seme per terra», dice il testo di Genesi, per non fecondarla. Ma siccome l'amore è fecondità e non può esistere un amore frustrante, il comportamento di Onan, fa intervenire Dio, il quale fa morire anche questo secondo figlio di Giuda. A questo punto Giuda non vuole rischiare di perdere anche l'altro figlio dandolo a Tamar come sposo, per lui quella donna ormai è da abbandonare a se stessa.

 

Ma la donna che non ha un figlio non ha un futuro, perché in Israele la donna è proprietà del padre. Nel momento in cui c'è il contratto di matrimonio con un uomo, lei diventa proprietà di quell'uomo, del suo futuro sposo, che è chiamato alla responsabilità della custodia nei suoi confronti. La donna in Israele è sempre definita come “figlia di”, “moglie di”, “sorella di”, “madre di” e il suo nome non viene neanche incluso nel registro civile. Allora Tamar, che si vede ormai privata del suo futuro, sapendo che suo suocero Giuda deve andare in un certo paese, si toglie le vesti da vedova, si mette delle vesti adeguate a quello che avrebbe dovuto fare e si fa trovare sulla strada che il suocero deve percorrere. Questi, pensando che sia una prostituta, vuole unirsi a lei ma non ha come pagarla, allora le promette una capra. Tamar, che è furba, chiede intanto un pegno, perché è questo che le serviva. E Giuda le dà il sigillo, segno della sua identità, il bastone, segno della sua autorità e i cordoni, segno dei suoi beni, perché nel cordone il viandante metteva gli utensili per mangiare e anche il cibo. Quindi, le dà l'identità, l'autorità e la proprietà che aveva per il viaggio, poi i due si uniscono e Tamar rimane incinta.

 

Dopo tre mesi a Giuda arriva la notizia che la nuora è incinta, dunque deve avere infranto la legge ed essersi unita a qualche uomo che non apparteneva alla famiglia del marito. Giuda ordina subito che venga bruciata viva. Giuda, quindi, pur avendo commesso un peccato, pensa che Dio non veda, che tutto sia rimasto celato fra lui e quella donna e va a testa alta, come capita spesso ai prepotenti, che si ammantano di onorabilità, quando l'onorabilità propria e altrui l'hanno calpestata. Tamar, però, quando viene portata al supplizio, dice: «Portate questi oggetti a Giuda e ditegli che io sono incinta del proprietario di questi oggetti». Giuda riconosce il suo sigillo, il bastone e i cordoni e ammette: «Tamar è giusta e io no». Così Tamar ha, non un figlio solo, ma due, due gemelli che sono figli suoi e di suo suocero. Così la linea dinastica di Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda continua, ma attraverso la deviazione di questa donna non ebrea. Questi figli non nascono da una unione legale,  all'interno di una coppia legalmente sposata, nascono in modo strano e Tamar è la prima donna che partorirà un figlio non dal legittimo marito ed in modo alquanto strano. Maria di Nazareth sarà l’ultima donna di questa linea che partorirà un figlio, Cristo Gesù, ma non dal suo sposo legittimo. Ecco perché Matteo inserisce nella genealogia Tamar.

 

2.  Dalla parte degli ultimi

 

Da questo racconto impariamo che possiamo celare il nostro peccato agli occhi degli uomini quanto vogliamo, possiamo comprare nel mercato della società tutte le maschere di onorabilità che vogliamo, ma prima o poi Dio smaschera la nostra iniquità e il nostro peccato si ritorcerà contro di noi, come ha detto il Papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi: «Verrà un giorno il giudizio di Dio».

 

La seconda riflessione deriva dal fatto che Giuda vuole liberarsi di questa donna fastidiosa. Possiamo correre anche noi il rischio di volerci liberare in un modo o nell'altro di coloro che ci danno fastidio. Ed io chiedo a me ed a voi, che tanto bene state facendo, nella Caritas o a sostegno della nostra Caritas: non può essere che i poveri, quelli veri, ci danno proprio fastidio e pensiamo di rimuoverli? Noi ci ritroviamo fra di noi che siamo tutti gente per bene e stiamo anche bene, ma se stessimo con i poveri veri, quelli che puzzano, che non hanno nulla da mangiare stasera, che magari  vengono da terre straniere, come ci sentiremmo? La nostra carità è davvero un amore che crea relazione e fecondità o è ancora un'elemosina? Non possiamo correre il rischio di trovare una nostra soddisfazione morale adoperandoci nella carità verso gli altri e poi di “disperdere il seme” quando si tratta davvero di creare la relazione con i poveri? Non corriamo il rischio di pensare che la carità, che, è vero, copre un gran numero di peccati, acquieti la nostra coscienza che rimane borghesemente ingessata?

 

E infine: Dio non sceglie mai le autostrade per arrivare fino a noi, sceglie le vie tortuose. Egli recupera gli emarginati e li rimette dentro la storia della salvezza, da protagonisti, come è accaduto con Tamar. Il Natale ci ricorda che non è l'uomo che ascende verso Dio, è Dio che discende verso gli uomini. E non abita nei palazzi dei ricchi e dei potenti, né nel tempio di Gerusalemme, ma nasce nella grotta di Betlemme e suoi amici sono gli emarginati pastori, un asino e un bue, perché ciascuno di noi, dalla polverosità della propria coscienza, dalla fangosità della propria situazione interiore, può davvero assurgere fino ad essere immagine di Dio, che di noi si è fatto immagine incarnandosi.

 

L'ultima considerazione riguarda il canto di Maria, il Magnificat. In esso Maria dimostra che Dio è partigiano e lei è partigiana, perché si è schierata con decisione, dichiarandolo anche a nome di Dio e si è schierata dalla parte degli umiliati, degli abbattuti, di quelli che mordono la polvere, degli affamati. Maria è donna di parte, donna che si è schierata.

 

Allora, celebrare il Natale significa per noi decidere davvero, una volta per sempre, da che parte stare, decidere di superare tutti i compromessi della nostra coscienza e di stare davvero dalla parte del Bambino. Forse saremo solo l'asino e il bue, non importa. Gli altri - i magi, i pastori, gli stessi angeli – sono visitatori occasionali, ma l'asino e il bue sono lì, con lui e danno il nulla della loro presenza, il poco del loro calore, danno tutto il loro respiro, come atto d'amore al Bimbo Gesù. Forse Gesù, forse Dio, oggi ci chiede ancora il nostro respiro. Sia lodato Gesù Cristo!